È capitato a tutti di trovarsi di fronte alla richiesta di obiettività riguardo al modo di parlare della storia. E non si può nascondere la tentazione di attribuire alla richiesta un fondo di legittimità e di buon senso. La questione però è piuttosto controversa.
Perché è una manovra strumentale
In genere chi sbandiera la faziosità altrui – contrapponendo implicitamente la propria autoqualificata obiettività – persegue esattamente lo scopo opposto a quello dichiarato: vuol affermare un proprio particolare punto di vista senza però dichiararlo come tale. Spesso si tratta di una prospettiva dichiaratamente “moderata”, come se la moderazione coincidesse con la verità; e spesso è una lettura storica molto semplicistica: la “storia” è materia complessa!
I tre livelli della storia
In estrema sintesi possiamo individuare tre livelli di conoscenza nello studio della storia
1) La verità storica
È probabilmente quello a cui ammiccano i sostenitori dell’obiettività storica, ma certamente non la storia che poi propongono. Si intuisce bene a cosa ci riferiamo, ma è anche molto facile fare confusione. In ogni caso, su questo punto non ci possono essere invenzioni: sono le date, i numeri, le cifre, i resoconti. Non c’è interpretazione e per questo la verità storica in sé non serve a molto. In generale la storia antica vive molto su opinioni contrasti nella ricostruzione della “verità storica”, mentre la storia contemporanea fa del fatto storico il punto di partenza per analisi speculative.
Quali sono questi fatti? Tutte le date. Tutti i numeri. Alcuni dati non certificati, come ad esempio il numero dei morti nei lager, sono però certi a grandi linee e non possono essere oggetto di revisionismo. Non sono interpretazioni, chi nega l’olocausto mente e basta.
Altre situazioni sono più intricate e per questo deve essere netta la distinzione tra il fatto e l’interpretazione. Prendiamo per esempio il confronto tra lager e gulag. La verità storica ci dà la dimensione del fenomeno non l’interpretazione. Mettere sullo stesso piano due episodi distanti per dimensioni, motivazioni, contesti storici e politici è interpretazione non verità.
Nel caso dei gulag e dei lager non soltanto il numero dei morti è verità storica, ma anche le finalità: nei campi di concentramento sovietici ci finivano oppositori politici (o ritenuti tali) obbligati a lavori forzati in condizioni disumane; i lager erano predisposti per l’annientamento della razza ebraica (e non solo): quindi non era un istituto punitivo ma preventivo a sfondo razziale e finalizzato allo sterminio.
Detto questo si può valutare la questione in molti modi, ma appunto siamo nel campo dell’interpretazione non in quello della verità storica, della cosiddetta “oggettività”.
C’è da aggiungere che la fredda storia dei numeri non serve a molto perché è priva di senso: le cifre in sé possono anche significare poco, e qui entra in scena lo storico, o lo studioso della materia, che deve individuare i nodi interpretativi utili per “decodificare” l’informazione storica.
2) Percezione di chi ha vissuto i fatti
Il secondo livello di conoscenza storica riguarda la percezione della realtà adeguata a chi ha vissuto il periodo oggetto di studio. In altre parole per capire un avvenimento e dare la giusta importanza ai diversi episodi, personaggi, situazioni, occorre avere chiaro che il nostro modo di pensare difficilmente coincide con quello di altre epoche ed altri contesti.
Un esempio classico e anche attuale è quello della conferenza di Monaco del 1938. Gran Bretagna e Francia avvallano la drammatica invasione tedesca dei Sudeti, territorio appartenente alla Cecoslovacchia. Oggi è un episodio citato (a sproposito) per sottolineare il rischio della comunità internazionale di passare sopra ai soprusi di uno stato su un altro. Chiunque fosse vissuto dopo la I guerra mondiale avrebbe fatto il possibile e l’impossibile per evitare un’altra guerra come quella. L’idea della guerra preventiva è un’invenzione moderna, probabilmente dovuta anche alla sproporzione di forze per cui chi attacca sa di perdere pochi uomini, ed era assolutamente fuori da ogni logica per uno statista del 1938. La Germania era la potenza militare considerata più forte ed era logico aspettarsi centinaia di migliaia di morti nel dichiarargli guerra: chi si sarebbe preso la responsabilità di fronte ai cittadini?
Dal punto di vista dello storico non interessa il nostro giudizio di oggi su quel fatto, bensì interessa capire perché le cose andarono in quel preciso modo e non in un altro.
3) La “teoria della relatività”
Ovvero non dimenticare mai che noi siamo sempre inevitabilmente osservatori parziali. La logica del punto di vista deve essere sempre al primo posto nella ricerca storica. Non è fondamentale ripulire il nostro modo di pensare, ma è indispensabile essere consapevoli di questo punto debole, e quindi essere mentalmente aperti verso altre letture.
Esempi.
- 1492: scoperta dell’America (per noi). Genocidio e sfruttamento per le civiltà indigene. La storia dei secoli XVI-XX nel continente latinoamericano è la storia dal punto di vista dei colonizzatori.
- Quando Carlo Magno, re dei franchi, si fece incoronare dal Papa nell'800 a San Pietro, come imperatore del Sacro Romano Impero, nella capitale dell'impero romano d'Oriente (all'epoca considerato "l'impero romano") scrissero con rammarico: "Roma è finita in mano ai barbari".
- Tra ‘800 e ‘900 gli europei colonizzarono il mondo. Quanto saranno diverse le “obiettive storie” che potranno raccontare gli storici europei e gli storici dei paesi colonizzati?
del dopoguerra e da una cultura europea legata al valore dell’antifascismo.
In conclusione potremmo dire che l’obiettività a Storia esiste, ma è utile come punto di partenza. Infatti la verità storica senza interpretazione non avrebbe significato, non ci servirebbe cioè né come memoria condivisa né come materia didattica. Per di più qualunque interpretazione è soggetta immancabilmente alle complessità e alla parzialità del nostro punto di vista.
Riassumendo per fare analisi e interpretazioni su materiale storico occorre prendere coscienza e conoscenza di alcuni essenziali elementi:
• il fatto storico
• mentalità di chi ha vissuto i fatti
• contesto socio-politico-culturale
• punto di vista di europeo occidentale del XXI secolo
(dubitare di chi sbandiera la propria obiettività)
Periodicamente torna fuori al questione dell'apologia del fascismo. Un aspetto che ha una contraddittorietà filosofica di fondo (negare la libertà a chi vuol negare la libertà?) che ha trovato comunque una qualche forma giuridica già a partire dal testo costituzionale - che è nella sua essenza antifascista - ed è stata strutturata dalla cosiddetta "Legge Scelba" [1] .
Tra le molte questioni discusse e discutibili ce n'è una invece che non ha molto senso dal punto di vista storiografico, e che invece suscita grande interesse a livello di pubblica opinione. Ovvero l'antica questione sul perché apologia del fascismo sì e apologia del comunismo no!?
Per farsi un’idea autonoma bisognerebbe leggere molti testi riguardanti sia la storia del fascismo sia la storia del comunismo, ma nello specifico ce ne sono due molto indicativi e costruiti con un metodo valido, e su quelli si basa la prima parte di questa sezione: Viva Mussolini e Tutti gli uomini di Mussolini.
NOTA - COME SI RICONOSCE UN TESTO STORICO VALIDO? In genere la ricchezza delle note e la lunghezza della bibliografia sono criteri di serietà dello studio. Su fascismo e comunismo i testi mediocri, senza fondamento metodologico di ricerca e compilazione storica, sono davvero tanti.
Aram Mattioli (Viva Mussolini) è un autore svizzero che ha pubblicato in Svizzera questo studio nel 2010. È un ottimo quadro di quel complesso di dettagli di cultura e propaganda che hanno edulcorato l’immagine del duce e del ventennio. Un processo riabilitativo iniziato, per responsabilità varie dirette e indirette, già nel dopoguerra e giunto ai giorni d'oggi con rinnovato vigore.
La seconda vita di Mussolini si spiega con il fatto che in Italia, oggi, una fetta non irrilevante dell’opinione pubblica coltiva un’immagine del duce indulgente, tinta di un fascino segreto, che non sembra essere scalfita dalle conoscenze storiche derivanti dalle ricerche degli ultimi anni (*). Sebbene il clima politico instauratosi con Berlusconi l’abbia indubbiamente favorita, una simile indulgenza non è una invenzione della seconda repubblica. (…)
Dopo la caduta del fascismo, gli antifascisti di sinistra non riuscirono a smascherare in maniera efficace Mussolini, fautore di una dittatura nemica dell’uomo. Mussolini fu considerato a lungo una nullità politica. Dopo la fondazione della repubblica, il discorso della memoria lo liquidò come un buffone grottesco, un “Cesare di cartapesta” che non meritava ulteriori riflessioni, dato che gli italiani si erano liberati con una sollevazione popolare di quell’ “aspirante tiranno” e delle sue fantasticherie pseudoimperialiste. “Durante il primo decennio repubblicano”, ha affermato Sergio Luzzato non molto tempo fa, “la cultura antifascista ha preferito non indugiare sopra la “trista figura” di Mussolini. Così la cultura estranea ai valori della Resistenza ha avuto agio di svolgere quasi senza contraddittorio il proprio racconto della vita, della morte e dei miracoli del duce.” (Aram Mattioli, Viva Mussolini, p.112)
Il processo di Normiberga non ha ripulito le istituzione della nuova Germania dai funzionari e comandanti nazisti, ma - specialmente nella Germania est - il processo di epurazione è stato piuttosto profondo. In Italia non c'è stato nulla di simile a Norimberga e oltretutto è stato il primo paese - tra quelli collaborazionisti - a decretare un'amnistia genereale.
Una mossa politica utile alla contingenza (per ragioni diverse sia alla DC sia al PCI), ma che ha lasciato strascichi drammatici nei decenni successivi. In pochi anni il personale statale in posti chiave - forze armate, servizi segreti, forze dell'ordine ecc. - si è svuotato di ex partigiani e si è riempito di ex fascisti. Alcuni di questi erano veri e propri "pezzi grossi" del regime; responsabili, in Africa o nei Balcani, di rappresaglie e omicidi accertati dal tribunale internazionale per crimini di guerra.
“Gli uomini di Mussolini” di Davide Conti svolge, a questo proposito, una accurata indagine sulle vite di alcuni gerarchi fascisti sfuggiti alla condanna e riabilitati nell’establishment della seconda repubblica. Nomi che ai più non dicono nulla – Ettore Messana, Giovanni Messe, Giuseppe Pièche, Taddeo Orlando e molti altri – ma che hanno ricoperto ruoli chiave negli anni che vanno dal ’46 ai ’70, incrociando molti degli episodi più inquietanti della nostra storia, da Portella della Ginestra alla strategia della tensione.
Scrisse uno dei principali storici della Resistenza Claudio Pavone:
“La fascistizzazione dell’apparato burocratico non fu dunque, com’è stato scritto “di parata” (…) Il fascismo, come forma storicamente sperimentata di potere borghese, non si esaurisce nei quadri del partito fascista ma è un sistema di dominio di classe in cui proprio gli apparati amministrativi tradizionalmente autoritari hanno parte rilevante. Di parata va piuttosto definita, dato il fallimento dell’epurazione, la democratizzazione post-resistenziale. (C. Pavone, Alle origini della Repubblica).
E IL COMUNISMO?
C’è poi questa strana idea, davvero balzana, della “par condicio” della memoria storica. Un approccio infantile, privo di logica.
Fascismo e comunismo sono due ideologie, esperienze storiche, prassi che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Apparentemente - in modo molto superficiale - una logica c’è. Ma basta cercare di capire per rendersi conto che – al di là del giudizio personale – l’equiparazione non ha senso.
Il fascismo è un’ideologia criminale. Nel migliore dei casi un piccola minoranza, organizzata in una rigida scala gerarchica comanda con violenza, intimidazioni e restrizione della libertà la maggioranza. In molti casi il fascismo ha abbattuto la democrazia, talvolta vincendo le elezioni e poi annullando il sistema democratico – come in Germania – talvolta abbattendo governi democratici – come in Cile e in Spagna. Non c’è mai stato un partito fascista che abbia rispettato le regole democratiche.
La storia del comunismo è molto più complicata e controversa. Intanto nasce come costola del socialismo, e già qui la distinzione tra socialismo e comunismo apre a una serie di problemi.
Il socialismo è un universo di idee politiche su come cambiare il sistema di produzione e distribuzione della ricchezza; l’obiettivo è realizzare la giustizia sociale e l’uguaglianza tra le persone, così da affiancare alle libertà civili e all'uguaglianza giuridica anche una autentica libertà esistenziale (la povertà nega, secondo i socialisti, il principio di libertà). Marx prevalse sulle tante altre idee – anarchici, sindacalisti rivoluzionari, utopisti ecc. – per la forza analitica della sua proposta; per aver inquadrato in un processo storico l’evoluzione del conflitto di classe come motore del progresso.
Ma la collettivizzazione economica e la negazione della libertà non rientravano nella teoria del socialismo. Che ben presto ha conosciuto la spaccatura storica tra rivoluzionari e riformisti. Entrambi hanno avuto successi. I riformisti hanno vinto elezioni politiche in molti paesi e hanno cercato di realizzare il socialismo attraverso riforme nel rispetto delle istituzioni parlamentari. Redistribuzione delle risorse e libertà individuali potevano convivere; in alcuni posti è riuscito meglio, in altri peggio. Resta il fatto che oggi i paesi scandinavi, governati per quasi tutto il Novecento da partiti socialdemocratici sono i più "equi" del mondo e più avanzati in tema di libertà individuali.
La storia dei socialisti rivoluzionari è più complicata. Ci hanno provato molte volte, a partire dalla Comune di Parigi (1871) ma sono sempre stati duramente repressi. A cavallo del secolo socialismo significa più che altro discussioni accesissime in merito a posizioni diverse: la libertà di opinione era data per scontata nell’auspicata società socialista.
Cambia tutto l’esperienza storica dei bolscevichi in Russia. Lenin, alla guida di un piccolo partito di sinistra, vede crescere il suo consenso durante la guerra. Per ottenere il consenso teorizza il potere dei soviet (in teoria una forma più avanzata di partecipazione popolare), alternandola allo slogan di “dittatura del proletariato” … ma in realtà dà vita al modello vincente per fare la rivoluzione: un partito di massa, rigidamente guidato da un comitato centrale con potere assoluto interno.
Una volta riuscita la presa del potere – in un contesto particolare, di guerra e povertà estrema, e con un governo borghese ancora legato allo zar – il potere si è “difeso” sacrificando i principi democratici e adottando lo schema del partito nella gestione dello stato. Si è innescata una spirale di riduzione degli spazi democratici che ha portato l’Urss fuori da ogni logica di democrazia e diritti civili. E quello è stato il modello.
Allo stesso modo Mao ha vinto la guerra civile e costruito un potere statale nuovo (non ha abbattuto un governo democratico).
a. negli stati democratici sotto l’influenza degli Stati Uniti i partiti comunisti avrebbero dovuto comportarsi secondo le regole della democrazia rappresentativa; i tentativi di presa del potere sarebbero stati disconosciuti (come infatti avvenne in Grecia).
b. Negli stati sotto l’influenza dell’Urss, sanciti dall’accordo di Yalta, Mosca avrebbe avuto mano libera, e non avrebbe tollerato ingerenze esterne;
c. nel cosiddetto terzo mondo – paesi in fase di decolonizzazione – Usa e Urss si sarebbero giocate la leadership mondiale. Erano paesi questi in cui non c’era né democrazia né ricchezza; un mondo molto difficile da analizzare con gli schemi di cultura politica e sociale tipici dell’Europa e dell’occidente.
In conclusione l'aspetto storiografico esclude, per ragionevolezza, qualcunque operazione di equiparazione dei due fenomeni. Quello che davvero manca, in Italia, è una diffusa consapevolezza della natura criminale del regime fascista e di come esercitò la violenza di massa come elemento costitutivo. Un fatto indiscutibile, attestato da tutta la letteratura mondiale storica, ma sottaciuto probabilmente perché, ben lungi dall'essere ormai una "storia passata", è utile per riproporre alcune di quelle idee anche negli anni duemila.
(*) In particolare riguardo alla repressione nelle colonie (Labanca, guerra d’Etiopia del 2015 e Dominioni Matteo, Lo sfascio dell'impero 1936-41) e alla questione della politica interna (l’inglese Paul Corner in “Italia fascista” del 2012 e “Consenso totalitario” 2012).
Estratto dall'ebook "Storia contemporanea"
Sapiens, l’origine della specie
Omaggio al capolavoro “Da animali a dèi” di Yuval Noah Harari e altri aggiornamenti
Tutti hanno in mente quel gioco dell’enigmistica, molto semplice, che consiste nel seguire la numerazione e unire i puntini. A quel punto si visualizza una figura, una forma, che dà senso a quello che non si vedeva.
Lo storico israeliano Yval Noah Harari ha presentato nel 2011 un lavoro che, come ha detto Roberto Saviano in un’intervista del 2019, “ha letteralmente riscritto il percorso umano su questa terra”. Lo ha fatto per l’appunto “unendo i puntini” della conoscenza accumulata in diverse, e talvolta distanti, discipline: storia, paleoantropologia, archeologia, psicologia, arte, filosofia, tecnologia, scienze.
Il risultato è davvero straordinario e apre a insospettabili scenari sul nostro lontano passato; e allo stesso tempo fornisce chiavi di comprensione per tutto il percorso della specie umana.
Harari inizia il suo percorso inserendo la comparsa della specie umana nel contesto della storia universale: 13,5 miliardi di anni fa compare la materia (big bang); 4,5 miliardi si forma il pianeta terra; 3,8 miliardi i primi essere viventi (batteri); a circa 6 milioni di anni fa risale un mammifero progenitore comune di umani e scimpanzé; a 2,5 milioni i primi esemplari del genere Homo. La specie Sapiens compare intorno ai 300 mila anni fa in Africa. Sulla scala del tempo praticamente un battito di ciglia. Numeri talmente al di fuori della nostra concezione da essere letteralmente incomprensibili.
Comunque.
Ormai da tempo è noto che la famosa immagine della scimmia che evolve in una serie di homo sempre più sofisticata, dall’australopiteco fino ad arrivare al “sapiens sapiens”, è del tutto fuorviante. Il genere Homo si era sviluppato, talvolta in contemporanea, in diverse specie: non più una linea evolutiva, piuttosto un cespuglio.
Quando il Sapiens Sapiens (cioè noi) arriva sulla scena esistevano già altri “uomini”, non troppo diversi dal punto di vista fisico. Harari, riportando le immagini ricostruite delle varie specie presenti tra Africa ed Eurasia mostra quanto questi fossero simili tra loro.
Per quel che riguarda il luogo di origine, la cosa è stata considerata acquisita: la culla dell’uomo è la savana dell’Africa orientale. Con i cambiamenti climatici che hanno trasformato e ridotto le foreste, una parte di ominidi si è adattata alla vita nella savana, sviluppando insieme alla capacità di stare in posizione eretta anche una maggiore socialità, necessaria alla sopravvivenza. Circa due milioni di anni fa l’australopiteco iniziò a spostarsi fino ad arrivare in Asia e in Europa, dando vita – per evoluzione – a specie diverse: il Neanderthal in Europa, il Denisova nell’area russo-siberiana, l’ Erectus in Asia; almeno sei specie diverse in contemporanea. Il sapiens Sapiens compare nella Rift valley (Africa orientale) e per oltre centomila anni vive lì; insignificante al resto del mondo, come ogni altro animale sul pianeta e come tutti gli altri rappresentanti del genere homo.
Questo è il quadro da cui inizia la storia (ri)scritta da Harari. Il quale spiega l’eccezionale percorso dell’umanità attraverso l’approfondimento di tre momenti-chiave:
La rivoluzione cognitiva (70000 anni fa)
L’homo sapiens, definito da Harari “ormai simile fisicamente a noi” inizia uno spostamento che lo condurrà nel giro di poche migliaia di anni a colonizzare tutto il mondo.
Le ricerche non hanno una risposta precisa, ma sono state indicate alcune ragioni per certificare la differenza tra questo tipo di essere vivente e tutti gli altri.
Prima di tutto, si è detto, l’homo sapiens ha il cervello più grande. Questo è vero ma non risolve del tutto; primo perché anche gli altri ominidi erano simili, e poi perché comunque per circa 150 mila anni il Sapiens ha continuato a vivere – indipendentemente dalle dimensioni del cervello – come gli altri ominidi della terra, arrivando ad inventare il chopper e a controllare il fuoco.
Un secondo motivo evolutivo è stato visto nella posizione bipede, in grado di “liberare” gli arti superiori. Ma il discorso è sempre lo stesso; non è l’unico, e per molto tempo questo elemento non ha cambiato la sostanza delle cose.
Un terzo motivo è dato dalla spinta alla socialità dettata dalle esigenze pratiche di sopravvivenza. Il parto nelle madri degli umani è “anticipato” rispetto agli altri mammiferi (già parzialmente autonomi al momento della nascita) per cui i neonati degli umani devono essere accuditi per molto tempo per sopravvivere, e necessitano di una protezione di gruppo. Queste necessità sociali hanno mutato anche geneticamente l’uomo, trasformandolo un animale “sociale”, con un fortissimo sentimento di appartenenza al gruppo (indispensabile per la sopravvivenza), con una precoce capacità di prendere coscienza di sé (già a 18 mesi) e con “l’istinto” di proteggere i deboli del gruppo. In particolare le figure delle donne e degli anziani risultano particolarmente importanti nella logica del gruppo esteso tipico della specie Homo.
In ogni caso fino a settantamila anni fa l’homo sapiens rimase un animale come gli altri.
Poi, quasi all’improvviso, dall’Africa orientale passa nella penisola arabica; da lì una parte si dirige in Asia (60 mila); un’altra parte va in Europa (45 mila). Dopo un po’ di tempo il Sapiens giunge ai confini del continente asiatico, si spinge nelle isole fino ad arrivare in Australia (40 mila). E sfruttando l’ultima era glaciale trova un passaggio nell’estremo nord e giunge – sulle orme dei mammut - fin in America, dando vita alla colonizzazione dell’intero continente tra 14 e 11 mila anni fa.
Nuove teorie
Recentissimi ritrovamenti hanno cambiato questa narrazione.
Misliya- I, il semimascellare sinistro di un Sapiens risalente a 170/190 mila anni fa, è stato ritrovato nel 2018 sul monte Carmelo in Israele. Una nuova analisi di resti attribuiti negli anni ’60 a Neanderthal riesumati a Jebel Irhoud in Marocco ha potuto datare la presenza di “sapiens arcaici” in nord Africa addirittura 315000 anni fa! Resti di Sapiens erano sparsi in Africa in epoche molto più remote di come si è creduto per decenni. Secondo Silvana Condemi e Francois Savatier, autori del testo “Noi siamo sapiens” del 2019, questo significa che “dopo aver esaminato approfonditamente i dati climatologici, geologici e culturali (…) e la variabilità genetica degli africani attuali, i ricercatori hanno concluso che l’evoluzione umana in Africa è stata multiregionale (…) la nostra ascendenza multietnica”. I ritrovamenti della seconda metà degli anni 2010 fanno pensare a una più complessa fase evolutiva di quella ipotizzata dallo stesso Harari. Il sapiens sarebbe “migrato” molto prima, si sarebbe mescolato con altri ominidi, principalmente Neanderthal e Denisova, e avrebbe poi dominato il mondo.
Inoltre anche la diffusione nel mondo dell’homo sapiens deve essere riscritta. Nel 2017 sono stati ritrovati fossili sapiens in Australia risalenti a circa 65 mila anni fa – 20000 anni prima del dato acquisito – e resti di sapiens in Cina di circa 100 mila anni fa. Sulla base di questi e altri ritrovamenti, è plausibile pensare che la fuoriuscita del Sapiens dall’Africa sia di molto anteriore alla teoria classica (130 mila anni fa, anziché 60 mila). E, sulla base della dilatazione di questi tempi, è possibile rivedere la forma di relazione tra i Sapiens e le altre specie di umani: dalla comparazione dei resti possiamo desumere che lo sviluppo cognitivo fosse pressoché equivalente al momento dei primi incontri, e che certamente c’è stata una certa ibridazione tra le specie. I dati genetici rilevano che la percentuale di Neanderthal e di Denisova presenti ancora oggi in una certa parte di popolazione mondiale è compatibile con l’idea di una ibridazione a dominazione Sapiens, seguita da oltre 2500 generazioni esclusivamente Sapiens. La teoria proposta allora sarebbe questa:
l’antenato comune è uscito dall’Africa arrivando in Europa e Asia e dando vita – in centinaia di migliaia di anni – a specie diverse ma simili per abilità e aspetto al Sapiens. Il quale si è evoluto in più zone dell’Africa (non esclusivamente nella Rift Valley) e, approfittando dell’abbassamento del mare dato da un clima globale freddo sarebbero passati in Medio Oriente e poi da lì in tutta la fascia sud o sudtropicale del continente euroasiatico, fino addirittura alla Cina (100 mila anni fa) e all’Australia (60 mila anni fa). Solo più tardi è iniziato lo spostamento verso ambienti poco adatti al Sapiens. Qui trovando altre specie ha iniziato a ibridarsi, acquisendo i tratti genetici utili all’adattamento ai climi più freddi. Le tracce genetiche coincidenti con quelli dei Neanderthal e dei Denisova sono per l’appunto inerenti queste proprietà di resistenza alle basse temperature. Il flusso di sapiens in crescita demografica ha via via ridotto gli spazi per le altre specie; sia dal punto di vista dello sfruttamento dell’ambiente sia dal punto di vista della supremazia genetica. Considerando che dalla scomparsa dei Neanderthal “puri” sono passate oltre 2500 generazioni, le percentuali oscillanti tra l’1 e il 4% presenti ancora oggi in alcuni gruppi etnici, non sono affatto trascurabili.
Per Harari il Sapiens è alternativo alle altre specie; secondo Condemi/Savatier è parzialmente complementare, o per meglio dire ibrido.
In ogni caso è intorno ai 60 mila anni fa che la presenza del Sapiens (più o meno ibridato) inizia a fare leva su una nuova stupefacente abilità, conosciuta come “rivoluzione cognitiva”. La cui origine è misteriosa per Harari perché attribuita solo ai Sapiens.
Secondo i ricercatori invece non si tratterebbe di un salto, bensì si spiegherebbe con la transizione lungo più di centomila anni di coevoluzione genetica e culturale da parte di vari gruppi di ominidi, tutti prima o poi “inglobati” dalla forte spinta demografica dei Sapiens. Circa 60mila anni fa, l’epoca della cosiddetta “rivoluzione cognitiva”, l’ibridazione dei Sapiens con le altre specie di Homo era compiuta. Le successive 2500 generazioni avrebbero eroso il patrimonio genetico riconducibile agli altri ominidi considerati estinti.
Comunque sia intorno ai 60 mila anni fa il Sapiens (o sapiens-ibrido) è protagonista di incredibili progressi: inventa torce, imbarcazioni, archi, frecce e utensili di ogni genere; riesce a produrre dei vestiti per proteggersi dal freddo e oggetti dal valore simbolico come delle statuine o dei graffiti.
Cosa significa tutto questo? Qual è il segreto dei Sapiens? E quali conseguenze possiamo attribuire a questa “rivoluzione”?
Il segreto è semplice ma ha conseguenze impressionanti.
L’homo sapiens, ad un certo punto ha sviluppato la capacità di immaginare cose che non esistono. E di farlo collettivamente.
“Per quanto ne sappiamo, solo i Sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato. Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e specie di umani erano in grado di dire “attenzione, un leone!”. Grazie alla rivoluzione cognitiva l’Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”. Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio dei sapiens”
(Harari, Da animali a dèi, p. 36, 2014)
E qui sta la formidabile semplicità con cui si spiega “quasi tutto” dell’evoluzione umana: non solo il Sapiens può inventare e credere a cose che non esistono, ma può farlo collettivamente. Esistono altri esseri viventi in grado di cooperare a grandi numeri, ma possono farlo secondo schemi determinati dalle informazioni genetiche (gli insetti) oppure in gruppi molto piccoli (lupi e scimpanzé, ad esempio). L’essere umano lo può fare sulla base di storie e credenze inventate; questo consente la cooperazione tra individui che non si conoscono e quindi di conseguenza la possibilità di incrementare all’inverosimile il potere di controllo sull’ambiente.
Il risultato è stupefacente, e l’essere umano si specializza in questa abilità; impara a farlo sempre meglio, lo trasmette agli altri e alle generazioni successive e lo farà in modo sempre più raffinato, impersonale e indiretto.
Da questa abilità deriva la supremazia sugli altri esseri viventi. L’uomo è debole rispetto ai grandi animali del pianeta: ma se si unisce può escogitare strategie per uccidere mammut e canguri giganti; può produrre e utilizzare strumenti utili per cacciare, pescare, difendersi ecc. L’unione fa la forza; e il modo per realizzare forme di cooperazione sempre più estese passa dalla capacità di inventare storie sempre più credibili, invasive, significanti. Spiriti, tribù, dèi, tradizioni, miti… nei millenni più recenti addirittura forme impersonali talmente sofisticate da nascondere la natura fittizia della loro stessa esistenza: il denaro, i contratti commerciali, le leggi, i diritti, le nazioni. Solo attraverso la cultura è possibile unire in numeri fuori dall’ordine naturale delle cose (poche centinaia di unità); e questa è la grande differenza tra l’uomo e il resto dei viventi. In un tempo relativamente breve il Sapiens fa saltare la regola universale dell’evoluzione e passa da essere parte della catena alimentare a diventarne il vertice: non è più preda di nessuna bestia (incidenti a parte), e tutti gli animali sono potenzialmente sue prede.
Ma non solo.
I limiti stessi dell’evoluzione sono superati. Per arrivare in Australia non ha più bisogno di aspettare milioni di anni per sviluppare la capacità di muoversi nell’oceano, semplicemente può costruire delle imbarcazioni e percorre migliaia di chilometri. Allo stesso modo non esiste ambiente così lontano e così inospitale da non poter essere esplorato: vestiti, utensili, nuove abilità… aprono a questa specie umana possibilità praticamente illimitate.
La dimensione dell’incidenza dei nostri antichi progenitori sul pianeta è scoperta piuttosto recente. È stata rilevata una coincidenza tra il suo arrivo in un certo territorio e la scomparsa sia delle altre specie di umani e sia della cosiddetta “megafauna”. Se resta un’ombra sulla scomparsa dei vari Neanderthal, Denisova, Floresienis non ci sono dubbi sulla responsabilità umana rispetto all’estinzione di tutti i grandi mammiferi – lenti negli spostamenti e nei tempi di riproduzione – per mano dei Sapiens. Per i cacciatori-raccoglitori l’opportunità di approvvigionarsi di enormi quantità di cibo uccidendo i grandi animali determinò l’eliminazione definitiva di tantissime specie animali. In Australia ben 23 su 24 dei grandi animali da più di 50Kg scomparvero nel giro di qualche millennio dall’arrivo del Sapiens. I mammut, che erano prosperati per milioni di anni nell’emisfero settentrionale, diminuirono progressivamente di numero fino a scomparire circa diecimila anni fa.
In estrema sintesi – e in netta contraddizione con l’immagina romantica dell’uomo primitivo in sintonia con la natura – il cinquanta per cento dei grandi mammiferi presenti sulla terra al momento della comparsa dell’uomo si erano già estinti prima della rivoluzione agricola, ovvero per mano dai cacciatori – raccoglitori.
Per quel che riguarda la scomparsa dei nostri “cugini” – Neanderthal, Erectus, Denisova ed altri – si sono occupati molti studiosi, arrivando ad una conclusione ambivalente. Da una parte c’era chi sosteneva la teoria del mescolamento, dall’altra chi la teoria del rimpiazzamento. In ogni caso nel 2010 fu fatto il test DNA su residui di fossili di Neanderthal per confrontarlo con quello dei Sapiens. Il risultato è stato sorprendente.
Scrive Harari “una porzione tra l’1 e il 4 per cento del DNA di un umano delle moderne popolazioni dell’Europa e del Medio Oriente è DNA neandertaliano”. Cosa vuol dire?
Probabilmente che la fusione fu assai ridotta, anche se la riproduzione era possibile e in qualche misura avvenne. Al netto di questa casistica marginale, la coincidenza tra arrivo dell’Homo Sapiens e scomparsa della specie umana autoctona è sospetta. D’altra parte se in tempi moderni “una piccola differenza riguardante il colore della pelle, il dialetto, la religione, è sufficiente a che un gruppo di Sapiens abbia deciso di sterminare un altro gruppo” perché dobbiamo pensare che gli antichi Sapiens, di fronte a un essere di un’altra specie, avessero maggiore tolleranza? La lotta per le risorse poteva essere una ragione sufficiente per spiegare la fine delle specie di uomo “non Sapiens”?
Non tutti sono concordi. Secondo Condemi/Savatier le estinzioni degli altri esseri umani “sono avvenute soprattutto perché gli habitat delle grandi specie si sono rimpiccioliti o sono scomparsi (perché) Sapiens tende a crescere demograficamente” mentre gli altri vivevano in uno stato di equilibrio con la natura.
In ogni caso il punto più rilevante non è intaccato da queste nuove scoperte.
La suggestione principale di Harari è relativa al meccanismo che ha dato le chiavi del dominio in mano al Sapiens, ovvero la capacità di “inventare” miti. In questo modo si sono create le condizioni per la cooperazione tra un numero incredibile di individui, prima centinaia, poi migliaia, poi milioni. Questo principio è alla base di tutta l’evoluzione umana. In tempi moderni la capacità di inventare cose che non esistono e di crederci collettivamente è diventata talmente sofisticata che noi “colti” esseri umani moderni non ne abbiamo la percezione, tanto ci sono immersi dentro. Il denaro, le leggi, il principio di proprietà, i contratti commerciali, le nazioni, le religioni, il socialismo, i diritti umani… sono tutte “finzioni” inventate dagli uomini straordinariamente efficaci nel far cooperare individui sconosciuti in numeri impressionanti.
Da questo si può ricavare una specie di “formula” che spiega la forza e il potere della specie umana:
FINZIONE è CONDIVISA DA MIGLIAIA O MILIONI DI SCONOSCIUTI è COOPERAZIONE = POTERE
Più la finzione è credibile e condivisa, più il (gruppo umano) Sapiens è potente. Questa regola vale sempre, in ogni epoca e in ogni luogo.
Collegamenti:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Apologia_del_fascismo